Un antico detto recita: l’amore non è bello se non è litigarello”. Spesso le coppie litigano e i motivi per cui lo fanno possono essere svariati e ripetitivi, in genere si litiga per motivi economici, sessuali, familiari (suoceri, parenti, arrivo dei figli), per motivi lavorativi. Tuttavia il conflitto si acuisce quando i partner sentono di non ricevere abbastanza attenzione dall’altro, avvertono una dissonanza emotiva che provoca dolore, e che nella maggior parte dei casi viene trasformata in rabbia.

Quando la coppia si forma, si vive un momento di euforia, quasi una alterazione di coscienza in cui tutto è bellissimo ed idilliaco, ci si incontra, scatta la scintilla, l’altro ci sembra tutto ciò che abbiamo sempre desiderato, la nostra metà che ha il compito di completarci. Questa fase di amore romantico prima o poi lascia spazio ad una fase più realistica in cui cominciano le incomprensioni e le delusioni, la rabbia e le pretese, ma non solo, inizia una fase molto importante per la costruzione del futuro della coppia, in cui i partner si confrontano si riscelgono e iniziano a progettare la loro vita insieme. In questa fase la coppia inizia il suo naturale processo di evoluzione in cui la relazione tenderà a maturare e a diventare sempre più profonda e intima. Le relazioni di coppia si evolvono seguendo una serie di fasi evolutive del loro ciclo di vita: l’illusione lascia posto alla realizzazione, che a sua volta apre le porte alla preziosa possibilità di guardarsi dentro e di vedere l’altro per come è, e non per come lo si voleva. Sembrerà strano ma spesso la coppia cresce e si fortifica proprio grazie ai momenti di crisi, che hanno in sé un potente aspetto creativo e maieutico. Un conflitto non è mai solo negativo, ma porta in sè la possibilità di diventare un evento che dà struttura alla coppia e trasforma le relazioni in qualcosa di inedito ed evoluto, un’ occasione che struttura e trasforma le relazioni interpersonali. Ogni conflitto è una risorsa e offre un’opportunità, ma richiede impegno ai partner che hanno il compito di riorganizzarsi e ripartire.

Il conflitto è dunque un momento costruttivo all’interno di un rapporto di coppia, spesso segna un passaggio dalla dipendenza dall’altro alla differenziazione. La fase fusionale in cui non si capisce dove finisce l’altro ed inizia l’Io lascia posto ad una lungo processo di indipendenza e differenziazione, durante il quale il litigio serve a stabilire le regole del nuovo rapporto. È molto importante evitare che il conflitto diventi distruttivo facendo in modo che la rabbia possa essere manifestata apertamente. Di frequente il lavoro terapeutico con le coppie si incentra proprio sul rendere consapevole ciò che viene manifestato in modo mascherato attraverso sarcasmo, comportamenti passivo-aggressivi, o attraverso veri e propri sintomi o patologie, come la depressione, problemi sessuali, attacchi di panico, ecc.. Il lavoro che ogni coppia dovrebbe fare in un momento di grande litigiosità è quello di cercare di capire e significare quanto sta accadendo, smettendo di pensare al partner come un carnefice, ma rivalutando questo momento come una grande opportunità dalla quale ripartire più consapevoli verso un nuovo obiettivo progettuale. Il conflitto dovrebbe essere vissuto come un’opportunità per una “manutenzione” personale e di coppia. Un momento in cui i partner possono accendere un focus sui propri bisogni personali e di coppia, comunicarli e attraverso un sano confronto, rinascere e rigenerarsi in un nuovo assetto ed in una nuova dimensione.

 

La psicoterapia di coppia è un intervento terapeutico volto a sostenere i partner che si trovano in difficoltà. L’intervento è finalizzato al superamento dei momenti critici che una coppia incontra lungo il suo percorso di vita insieme. Un terapeuta di coppia sarà in grado di osservare il problema da una prospettiva differente, offrendo nuove chiavi di lettura del malessere, aiutando la coppia a far emergere le proprie risorse, e accompagnandola senza schierarsi nel percorso. L’intervento con le coppie si articola in una fase iniziale di consulenza che si evolve, qualora si riscontrino le premesse adeguate, nel percorso terapeutico di coppia. Nella fase di consulenza, sarà possibile analizzare le specifiche problematiche al fine di condividere un progetto terapeutico utile a promuovere il benessere di ciascun partner all’interno della relazione con l’altro. Il percorso terapeutico potrà restituire ad entrambi nuove possibilità di interazione, inedite chiavi di lettura del problema, nuove opportunità di scambio e di incontro all’interno del legame. La crisi nel processo terapeutico può diventare una preziosa opportunità di scelta, che aiuterà ciascuno dei due partner nella definizione dei propri.

Mio figlio ha un problema: ma perché la famiglia dovrebbe venire in terapia se il problema è di uno?

Spesso è facile osservare i problemi dei nostri figli, e chiedere per loro un aiuto. Il fatto che loro possano essere aiutati ci rassicura, ci fa pensare che la situazione presto migliorerà. Ora il lavoro con un minore è spesso la punto di un aisberg. Le difficoltà di un figlio sono, in molte occasioni, un campanello di allarme di un disagio di tutta la famiglia.

Prendiamo una famiglia che ha problemi con un figlio che non riesce a gestire, fuori controllo, l’essere fuori controllo non è un problema solo del ragazzo, ma una difficoltà che riguarda tutta la famiglia, che è legato a complesse relazioni tra genitori e figli. Queste sono il nodo, spesso può essere poco utile accogliere il bambino o l’adolescente, perche una volta finita l’ora di terapia quel bambino o ragazzo tornerà a casa e vivrà le stesse relazioni con i genitori. Per aiutare i genitori, in diverse occasioni è necessario farlo direttamente, con la presenza dei figli, in modo da ricreare in terapia le stesse dinamiche famigliari, mostrando abitudini e ruoli di tutti i membri della famiglia. Solo in tal modo è possibile comprendere alla radice il problema e insieme, come gruppo famigliare, trovare un nuovo equilibrio. In questo modo ognuno, genitori e figli, può rendersi responsabili di ciò che sta accadendo ed aiutarsi a state meglio. La famiglia nella terapia vive un’esperienza che diventa un bagaglio per superare successive difficoltà, e sarà, dunque, in grado di attingere al percorso terapeutico per superare nodi difficili che la vita le riserva.

A chi non è capitato di vedere genitori troppo amici dei figli, o al contrario impositori di regole , una sorta di padre padrone. Nell’incontrare le famiglie spesso ci troviamo di fronte a questi due estremi. Negli ultimi anni capita spesso di incontrare famiglie in cui siano sfumati o confusi il ruolo di genitori o dei figlii. I bambini tendono a prendere decisioni al posto dei grandi, diventano protagonisti attivi di scelte educative che dovrebbero riguardare solo il piano genitoriale. La terapia tenta di ridistribuire doveri e responsabilità a tutti i membri della famiglia, liberando i figli da pesi e oneri che non gli competono.

Dobbiamo dire che il mettersi sullo stesso piano dei figli, trattarli come amici e confidenti è ciò che poi porta i genitori stessi, soprattutto in adolescenza, a sentire i figli fuori controllo e quindi a venire in terapia. Ma attenzione dobbiamo osservare i bambini prima che diventino adolescenti! Se cresciamo un bambino tiranno che prende tutte le decisione in casa, per esempio che canale vedere in tv, i tempi di quando si deve uscire o rientrare a casa, il momento del sonno; ci dobbiamo preoccupare del futuro. Perché un bambino tiranno spesso diventa un ragazzo fuori dalle regole, oppositivo o provocatorio. In conclusione occuparsi del problema di un figlio significa mettersi in discussione come famiglia per trovare con l’aiuto del terapeuta una via per stare meglio.

 

Un figlio non è solo pannolini, biberon e sorrisi, bensì un individuo in continua crescita, evoluzione e, come tale, dotato di bisogni non solo di natura fisiologica.

Fare i genitori, essere genitori, è un “mestiere” non facile.

Ogni genitore ha il compito di garantire benessere al proprio bambino: benessere che si struttura anche e soprattutto attraverso l’educazione.

Nella maggior parte delle famiglie l’educazione viene concepita in termini o di permissività o di divieti, spesso trascurando il grande potenziale di entrambi.

 

Cosa comportano i continui “SI”?

I genitori, tutti, dovrebbero accogliere ogni bisogno del bambino senza, tuttavia, assecondare ogni richiesta fatta. Sto parlando di quelle richieste inopportune e non adeguate, che permettono al bambino di entrare in contatto con la propria frustrazione e di comprendere i confini del “possibile”.

Infatti, essere troppo permissivi accresce la credenza del bambino di poter ottenere tutto, in alcuni casi alzando il tiro, ma non solo.. al primo “no” egli sperimenterà la frustrazione, sentimento sconosciuto e difficile da gestire, che può avere un impatto forte se non si è dotati della capacità di contenerla.

Inoltre, l’ambiente familiare è un contesto protetto per un bambino, che dovrà successivamente confrontarsi con il contesto scolastico, ludico e in generale con altre persone diverse dalle proprie figure di riferimento, non assecondanti come i genitori.

Come usare al meglio i “No”

È dunque importante, laddove adeguato alla situazione, saper dire “no” a quelle richieste del bambino che non si possono realizzare, mostrandosi autorevoli ma non autoritari, fermi ma non aggressivi, coerenti e senza ricorrere a punizione fisiche. È necessario far valere il proprio disaccordo, motivandolo e, se possibile e opportuno, dando un’alternativa alla richiesta del figlio.

Per un genitore dire “no” può essere difficoltoso anche per paura di esser visto come il “genitore cattivo” e invece un no, detto al momento giusto e con modalità appropriate, aiuta il bambino a regolare le proprie emozioni, a sentirsi contenuto e a distinguere ciò che si può fare da ciò che non si può fare, acquisendo anche una migliore capacità relazionale e di negoziazione.

Un “no” può rappresentare una grande ricchezza per ogni bambino.

 

Prima di tutto chiariamo che, anche se un bambino mostra delle difficoltà pregresse, una vera diagnosi di disturbo dell’apprendimento e possibile farla in seconda elementare

Il bambino a cui sarà diagnosticato in disturbo, sperimenta già un disagio ed una difficoltà dall’inizio della scuola. In questo periodo può essere scambiato per pigro o svogliato. Anche la percezione del bambino stesso può identificarsi con questa visione di sé, provocando lui in modo silente un forte senso di colpa. Colpa per avere tutte le carte in regola come gli altri, ma nel non riuscire come i compagni, nel sentirsi spesso diverso e non capire come mai. Questi bambini per molto tempo pensano di essere “stupidi”, e quindi se i compagni gli descrivono come” non in grado di”, sentono che gli altri abbiano ragione.

La colpa è il vissuto, che nel senso di incertezza, gli stessi ragazzi hanno bisogno di costruirsi: pensano che vanno male a scuola perché è colpa loro, si giudicano inferiori agli altri come intelligenza e capacità

Tale vissuto rischia di costruire una bassa autostima interna, percependosi come un bambino poco degno di valore.

L’etichetta di “stupido” di “ non capace” può essere difficile da destrutturare, per tale ragione è importante aiutarli preventivamente. Sentendosi inferiori possono iniziare a comportarsi come tali, anche in molte altre sfere della vita. La conseguenza è quella di andare incontro ad una profezia che si auto – avvera. Sono stupido – mi comporto da stupido – gli altri mi fanno notare che sono stupido – allora sono stupido

Cosa succede in famiglia?

La famiglia solitamente conferisce al rendimento scolastico una grande importanza, in quanto si presuppone che l’andamento a scuola incida in maniera determinante su tutte le altre aree, soprattutto rispetto alla possibilità di riuscita in futuro nel lavoro e nella vita in generale.

Cosa succede se il figlio non decolla?

In questa confusione i genitori si muovono al buio e spesso mettono a frutto strategie che possono essere dannose per il bambino, compreso il tenerlo per molte ore sui libri, senza ottenere risultati.

In molte occasioni i soggetti con un disturbo di apprendimento sono nervosi, piangono, e mostrano atteggiamenti aggressivi. Anche la famiglia può avvertire un senso di frustrazione e di impotenza nella gestione del problema. Anche i genitori avranno bisogno di sostegno e di aiuto per prendersi il tempo di capire meglio cosa sta accadendo.

Dunque cosa fare?

E’ importante mettersi in relazione con l’insegnante per capire cosa lui osservi in classe e come anche a casa, dal punto didattico, può essere aiutato il bambino. Sarebbe utile informasi con le strutture pubbliche del territorio per mettersi in lista per fare una valutazione diagnostica, solo attraverso questa la scuola può attivare un piano didattico individualizzato per aiutare il bambino a raggiungere gli obiettivi in accordo con la sua difficoltà.

Nel frattempo la famiglia ha un ruolo molto importante. Sostenere il bambino, aiutarlo a curare ambiti, ad esempio lo sport o gli amici, in cui riesce, in cui si sente sicuro di sé. Ciò può essere molto importante, per prevenire la costruzione di un pre – giudizio, di una percezione negativa di sé.

Questi bambini devono essere aiutati a non identificarsi con il disturbo, loro sono molto altro. Al fronte di una aria che funziona con qualche difficoltà spesso ce ne sono diverse dove si rivelano estremamente capaci. La famiglia deve favorire una struttura comoda accogliente dove il bambino può essere libero di sperimentarsi ,cogliendo di sé punti di forza e di debolezza, ma prendendo coscienza che entrambi fanno parte di lui. Solo in tal modo sarà possibile favorire una percezione di sé equilibrata e non concentrata solo sulla difficoltà, che abbracci l’intera persona.

La famiglia potrà costituirsi come rete di sostegno al lavoro che il figlio dovrà intraprendere, incoraggiandolo ad utilizzare le proprie risorse, riconoscendolo come competente; facendogli arrivare affetto e stima.

 

È questa l’epoca della “magrezza”: siamo continuamente bombardati da immagini raffiguranti la donna magra, rimandando ad uno stereotipo di bellezza che continua a generare una visione idealizzata e insana. Purtroppo ad essere influenzate sono tante, tantissime giovani donne che ricercano quell’ideale di bellezza che provoca non pochi problemi di salute ma anche di malessere psichico.

Le persone anoressiche sono ossessionate dal peso corporeo e dal cibo, infliggendosi continue rinunce che portano, inevitabilmente, al sottopeso e a tutte le conseguenze ad esso associato (amenorrea, ricovero). Le stesse dinamiche psichiche le ritroviamo nelle persone bulimiche, che si differenziano da quelle anoressiche per il normo peso e per episodi di “abbuffate” senza controllo, a cui seguono quasi sempre atti di compensazione (vomito autoindotto e uso di lassativi).

In che modo la famiglia esercita la propria influenza?

Diversi studi concordano nel ritenere che l’anoressia e la bulimia sono la manifestazione di disturbi più profondi legati alla propria identità; identità che si struttura attraverso un processo di “differenziazione” dalle proprie figure genitoriali. Nel caso delle persone anoressiche questo processo non sembra verificarsi. Tantissimi studi condotti in questo ambito hanno rintracciato il punto cardine del disturbo nel rapporto con la madre, che appare essere iperprotettiva, impedendo il normale percorso di “separazione”, motivo per cui la persona anoressica/bulimica si percepisce come estensione della madre piuttosto che come individuo a se stante. Emerge dunque un bisogno di controllo che viene spostato sul cibo e sul peso; controllo che, inconsapevolmente, è finalizzato alla ricerca di quelle attenzioni di cui la persona si sente privata. La persona anoressica/bulimica crede che i suoi problemi siano causa dell’aspetto esteriore e del peso corporeo e generalmente il disturbo si innesca a cavallo di una nuova esperienza di vita che richiede responsabilità e autonomia a cui la persona non si sente in grado di far fronte. La famiglia della persona anoressica/bulimica risulta essere “invischiata”, cioè caratterizzata da rapporti di dipendenza in cui non vi sono confini tra i membri, ma tutti pensano allo stesso modo. E se la madre, in queste famiglie, appare essere iperprotettiva, il padre sembra offrire alla figlia un supporto emotivo mediante il cibo, riproponendo, inoltre, lo stesso tipo di relazione negativa vissuta con la moglie. In conclusione, questi genitori appaiono emotivamente insoddisfatti e alla ricerca di nutrimento emotivo nei figli. Entrambi i disturbi spesso di associano a disturbi d’ansia, disturbi di personalità, dipendenze e stati depressivi.

Come agire?

Vista la connessione tra i disturbi alimentari e le dinamiche familiari, sarebbe utile una psicoterapia familiare, attraverso cui esplorare i legami, le relazioni e le dinamiche esistenti tra i vari membri della famiglia e intervenendo, laddove necessario, a ridefinire i confini individuali di ognuno. L’intervento sull’intero sistema familiare non ha finalità giudicanti o di attribuzione di colpa anzi, ritenendo che i genitori siano il supporto indispensabile per i propri figli, il loro coinvolgimento è una risorsa per la persona che presenta il disturbo, ma anche per l’intera famiglia che può riconfigurarsi al meglio.

A tutti è successo di sentirsi tristi, la tristezza infatti è un’emozione, e in quanto tale non dura per sempre, oppure di non essere di buon umore, anche senza una causa, o di non avere particolare voglia di fare.

Questo però non significa essere depressi!

La depressione è stata studiata fin dall’antichità e sull’argomento si sono ritrovati molti documenti che trattano i disturbi dell’umore. Nel Vecchio Testamento viene descritta una sindrome depressiva nella storia di re Saul, mentre nell’Iliade di Omero si parla del suicidio di Aiace. Ippocrate intorno al 400 a.C. usò termini come mania e melanconia, dove melan significa nero e cholè bile, per indicare disturbi mentali ed anche Galeno (129-199 d.C.) usò questi termini in medicina. Nel XII secolo un medico ebreo Moses Maimonides considerò la melanconia come un’entità clinica a sè stante e nel 1686 Bonet definì un processo morboso mentale come maniaco-melanchonicus.

La depressione è definita una patologia che apporta disturbi dell’umore, è caratterizzata da vari sintomi che influenzano la vita della persona compromettendone gli aspetti personali, lavorativi e sociali. Può presentarsi con vari sintomi tra i quali:

  • disturbi del sonno (dormire molto o molto poco),
  • problemi di memoria,
  • perdita di energia,
  • mancanza di interessi,
  • difficoltà di concentrazione o di prendere decisioni,
  • cambiamenti di peso (aumento o diminuzione dell’appetito),
  • pensieri di svalutazione,
  • sensi di colpa,
  • pensieri sulla morte e sul suicidio,
  • tristezza durante la giornata (quasi tutti i giorni).

 

L’infedeltà di coppia è più comunemente conosciuta con il termine tradimento, e delinea il passaggio da una relazione ad un’altra attraverso una rapporto “extra” che avviene al di fuori dal legame coniugale o con il proprio partner.

La parola stessa infedeltà dal latino infidelĭtas ‘infedele’, rimanda al comportamento attraverso il quale si viene meno ad un patto di fedeltà precedentemente concordato e che prende forma esclusivamente all’interno di un legame in cui viene tradito e sotteso un patto fiduciario. Per tradire è necessario prima sentire di appartenere a qualcuno, il tradimento nasce quindi all’interno di una condivisione e di un senso di appartenenza dove ciò che viene tradito è primariamente la sacralità del NOI. Il tradimento mina la fiducia nella relazione e mette in discussione quel porto sicuro che ha rappresentato la relazione sin a quel momento. Per questo motivo l’infedeltà comporta conseguenze drammatiche sia per chi lo agisce che per chi lo subisce, in quanto rompe il patto garante dell’intimità e della complicità tra due persone. Le relazioni extraconiugali spesso sono viste come una minaccia al rapporto di coppia, risultano essere delle disattese visibili e concrete delle regole e delle aspettative che caratterizzano il rapporto di coppia.

Ma perché si tradisce ?

1)Perché si vuole conservare l’ideale di una coppia perfetta: si tradisce al fine di conservare il mito della coppia perfetta, ciò accade alle coppie che tendono a manifestare a trasmettere la sensazione di possedere una perfetta intesa, in questi il desiderio di tenere in piedi la coppia o la famiglia ideale prevale sulla ricerca e la creazione di una relazione più autentica e profonda tra i partner che volte richiede anche un piano di conflittualità;

2) Per evitare la conflittualità nella coppia : si tradisce per evitare i conflitti, ad esempio quando in una relazione entrambi i membri non sono in grado di affrontare liti e contrasti, si verifica una situazione in cui la coppia vive una sorta di perfezione falsata e sterile del rapporto;

3) Perché non si è in grado di risolvere i conflitti: succede quando i partner non riescono a trovare delle soluzioni funzionali e durature ai propri conflitti, ciò li porta a vivere una condizione di rabbia e di frustrazione repressa che volge nella ricerca di soluzioni esterne;

4)Per evitare uno stato di intimità autentico: si può tradire per fuggire e darsela a gambe da una intimità che viene temuta, questo si verifica quando uno dei partner evita di entrare in intimità con l’altro perché far entrate l’altro nel proprio mondo lo spaventa e gli provoca ansia;

5 ) Insoddisfazione nei rapporti sessuali: accade quando i rapporti sessuali sono assenti oppure insoddisfacenti e si crea un circolo vizioso attraverso cui uno dei due partner cerca questa soddisfazione in un’altra relazione;

6) Per rompere gli schemi ormai stereotipati: si tradisce anche per mandare a monte tutti quegli schemi che si sono ormai radicati all’interno della coppia e che risultano essere un terreno sterile per la realizzazione individuale dei singoli membri, oppure per tutte quelle dinamiche che ormai si sono cronicizzate che risultano essere disfunzionali e che provocano dolore o insoddisfazione ad uno dei due partner. Si può tradire quando ci si sente in “gabbia”, sentendo che niente può cambiare. Il tradimento in questo caso può essere uno strumento per far saltare, spesso in modo inconsapevole, quella relazione, creando un movimento dentro la coppia;

7) Per cambiare degli aspetti personali: si può tradire anche per smuovere quel torpore esistenziale nel quale ci si sente immersi, per allontanarsi da una ripetitività di vita routinaria e noiosa. A volte tradire corrisponde ad un bisogno di cambiare e di modificare il proprio modo di vivere, di ri-pensarsi ie di ri-esistere.

Al tradimento viene data sempre un’accezione negativa, per via dell’inevitabile dolore che porta con sé, ma in realtà l’infedeltà può muovere la coppia verso un cambiamento della relazione stessa. Il tradimento svela desideri, aspettative e vissuti nascosti che appartengono ad entrambi i partner, il tradimento li svela e spinge i membri della coppia a “mettere tutto sul piatto”, a rivelare insofferenze ed inquietudini che hanno sottovalutato nel tempo o che si sono tenuti dentro per “un quieto vivere”. Questo terremoto in cui tutto è messo in discussione può divenire un terreno fertile sul quale gettare le basi di una relazione più consapevole ed appagante. Nel nostro lavoro terapeutico con il tradimento, abbiamo assistito alla nascita di relazioni con presupposti ed aspettative diverse dalle precedenti; un paziente una volta ci disse “ mi scoccia dirlo, ma mia moglie oggi, dopo aver tradito, è diventata una moglie migliore per me”. La terapia di coppia aiuta i coniugi a dare un senso a ciò che è successo, a comprenderne i meccanismi e come ognuno ha contribuito alla maturazione di questa “fuga” e al raggiungimento di questa situazione dolorosa. Nel percorso terapeutico non sempre la coppia decide di ricostruire un legame, ma può anche comprendere di avere bisogni o desideri che l’altro non può soddisfare. Non è importante se il percorso psicoterapeutico porti la coppia e ristabilire una relazione o a separarsi, il punto è che lavorare sul tradimento consente ad entrambi i partner di comprendere i propri bisogni, desideri ed aspettative in modo chiaro e consapevole. In quest’ottica l’infedeltà permette di capire meglio sé stessi per muoversi verso il proprio benessere.

In questa epoca, fatta di tecnologie sempre più avanzate che facilitano la comunicazione e accrescono la possibilità di conoscere nuove persone, si sente sempre più frequentemente parlare di “Infedeltà”!

Per alcuni il tradimento è considerato un atto irrispettoso e scorretto nei confronti di se stessi e anche del partner, nonché un concetto che contrasta con i propri valori etici e morali. Per altri, invece, l’infedeltà è un’esperienza carica di eccitazione e di curiosità.

MA PERCHE’ SI TRADISCE?

Alla base del tradimento vi sono diverse motivazioni, tra cui:

  • difficoltà e problemi all’interno della coppia, spesso riguardanti la sfera sessuale;
  • il bisogno di accrescere il proprio sé al di fuori dei confini della relazione e la voglia di sentirsi ancora affascinanti;
  • il desiderio di sentirsi liberi e indipendenti;
  • disattenzione e mancanze da parte del partner;
  • la noia e la routine che si creano nel corso della relazione;
  • la nascita dei figli, verso cui spesso vengono dirette tutte le proprie attenzioni ed energie senza lasciar spazio al rapporto coniugale;
  • o semplicemente ci si può innamorare di un’altra persona.

L’empatia è un termine fortemente utilizzato, come molte nostre parole ha un’origine greca, significa percepire come se fossero proprie le emozioni degli altri riconoscendole, comprendendoli nei loro pensieri e sentimenti. Questa caratteristica è fondamentale per stare in mezzo alle persone perchè ci aiuta a capirle e a sincronizzarci con loro, è perciò un’abilità sociale molto importante. Sarà capitato a tutti, vedendo un amico triste, andare da lui a portargli conforto, cercando di comprenderlo e stargli accanto. Per essere persone empatiche però bisogna come prima cosa capire se stessi.

Questo perchè per dare un nome all’emozione che vediamo negli altri dobbiamo riconoscere qual è, come ci fa sentire, pensieri ci provoca e cosa suscita nel nostro corpo. Solo conoscendoci possiamo rapportarci agli altri infatti l’empatia ci aiuta ad entrare in contatto con le persone che ci circondano e ad avere una buona comunicazione. E’ strettamente connessa l’empatia alla comunicazione perchè tramite essa possiamo “metterci nei panni degli altri”, quindi provare a capire le loro motivazioni e pensieri senza giudicarli.

Questa peculiarità secondo lo psicologo Martin Hoffman è presente fin dai primissimi giorni di vita del neonato. Sostiene infatti che vista la spontaneità del bambino i genitori potrebbero imparare da lui ad esserlo mentre lo accudiscono ed educano tramite la sensibilità più che le punizioni. Allo stesso tempo i figli vengono aiutati a riconoscere, dare un nome alle emozioni proprie e di quelli che li circondano in un continuo scambio vicendevole fra loro e i genitori.

Quando si pensa all’empatia si immaginano sempre emozioni poco piacevoli come ansia, tristezza o rabbia ma non riguarda solo queste. Esistono invece varie tipologie di empatia fra cui troviamo quella positiva e quella negativa. La prima ci permette di sincronizzarci e partecipare in maniera vera alla gioia e alla felicità degli altri e quindi sperimentare insieme a loro le emozioni positive. L’opposto di questa capacità è l’empatia negativa, questa tipologia si verifica quando il soggetto ha in passato vissuto esperienze che non gli permettono di sperimentare questa emozione.

Per questo evento evitano sia la loro felicità che quella degli altri per paura che ciò li porti a rivivere episodi spiacevoli. L’ultima tipologia è l’empatia interculturale che racchiude in sè vari sottogruppi: comportamentale, emozionale, relazionale e cognitiva. La prima si focalizza sul comprendere una cultura differente e i motivi dei suoi comportamenti.

La seconda è più prettamente emotiva infatti riguarda il capire i sentimenti provati dalle persone con culture differenti dalle nostre. L’empatia relazionale si focalizza sul comprendere gli affetti e le relazioni in base alla cultura di partenza. L’ultima si focalizza sugli aspetti cognitivi, cioè le credenze, i le ideologie, le strutture mentali e i valori di persone con culture differenti. Come abbiamo potuto vedere questa capacità ha tantissimi aspetti positivi ma bisogna fare attenzione perchè come in ogni cosa il troppo non va bene.

Il contagio emotivo infatti può essere frainteso come empatia, perchè hanno delle similitudini, ma ha caratteristiche differenti. Nel primo non avviene una distinzione fra noi e l’altro, non c’è consapevolezza infatti non si capisce cosa prova l’altra persona ma si percepisce come nostra la sua emozione. Un classico esempio di questo fenomeno è quando due bambini piccoli giocano uno scoppia a piangere e il secondo lo segue, senza un apparente motivo. Quindi da quello che abbiamo potuto vedere l’empatia è fondamentale per capire gli altri e stare in relazione con loro ma, per possedere questa qualità bisogna come prima cosa conoscere se stessi e il modo in cui viviamo le nostre emozioni.

IL MIO PARTNER NON MI TROVA Più ATTRAENTE?!

Non sono poche le persone che si sono trovate a porsi questa domanda, provando inevitabilmente sentimenti di frustrazione, angoscia e paura, nonché un basso senso di autostima.

Ognuno di noi ricorderà sicuramente i primi periodi della propria relazione sentimentale, quando l’impulso e l’attrazione sessuale erano una costante quotidiana che davano un forte senso di benessere e appagamento. Ma la fase dell’innamoramento non dura per sempre e ogni coppia, anche la più stabile, deve fare i conti con quella che viene definita essere “la fase adulta e matura” di una relazione, in cui l’entusiasmo iniziale viene sostituito dalla routine e dalla sempre più consapevolezza di come è realmente l’altro membro della coppia. Infatti, la fase dell’innamoramento porta con sé una visione idealizzata della persona amata, offuscando quelle che sono le sue reali e complete caratteristiche personali con cui prima o poi ci si ritrova a fare i conti.

Ma perché non si fa più l’amore?

Sono diverse le possibili cause del “disturbo del calo del desiderio”:

  • L’uso di psicofarmaci o di alcune pillole anticoncezionali possono ridurre l’impulso sessuale. È pertanto opportuno parlarne con il proprio medico per trovare un rimedio;
  • Stress: il desiderio sessuale si accompagna ad un rilascio di Dopamina, un neurotrasmettitore associato agli stimoli “piacevoli”, che in condizioni di elevato stress non raggiunge livelli adeguati di rilascio all’interno dell’organismo, causando la diminuzione dell’eccitazione sessuale;
  • Condizioni mediche femminili o maschili: nelle donne un basso livello degli ormoni estrogeni e negli uomini di testosterone, possono determinare il disturbo sessuale. Anche in questi casi è opportuno sottoporsi a visita medica;